Un capo donna per essere efficace deve necessariamente esercitare una leadership autoritaria o aggressiva?
Le sfide che una donna in posizione di leadership deve affrontare nel coordinare un gruppo di collaboratori uomini sono le stesse dei suoi colleghi imprenditori, oppure gli ostacoli sono maggiori?
Esiste una leadership femminile o questa definizione porta già in sé il seme di uno stereotipo?
Nell’articolo di oggi, attraverso le mie esperienze accanto ad alcune manager ed imprenditrici che ho avuto il piacere di seguire negli ultimi mesi, intendo mostrare come, nonostante i numeri rivelino ancora poche donne in posizioni di leadership nelle aziende e la permanenza di modelli organizzativi aziendali spesso ancora basati su principi patriarcali, si stia timidamente aprendo uno spazio di azione anche per le donne in posizioni di comando.
SOMMARIO
- Donne-capo: la fatica di assumere o rifiutare modelli di leadership convenzionali
- Superare il modello del “capo donna cattivo”: come inventare il proprio modo unico e sostenibile per essere una leader efficace ed etica
- Diventare una leader all’avanguardia è un viaggio: il progetto di innovazione organizzativa di Fabiola Butti, co-titolare del Salumificio di famiglia
Donne-capo: la fatica di assumere o rifiutare modelli di leadership convenzionali
Durante la mia attività di formatrice e coach per lo sviluppo organizzativo mi capita spesso di incontrare manager e professioniste che, a un certo punto della loro carriera, si trovano a dover decidere se rimanere in posizione subordinata o accettare ruoli di leadership, come quelli inerenti la gestione dei team o l’assunzione del ruolo di imprenditrici a seguito ad esempio di un passaggio generazionale o di un cambio degli assetti organizzativi.
Ciò che più di tutto alimenta i loro dubbi sull’accettare ruoli di comando è il fatto di aver interiorizzato un’idea di leadership assorbita per osmosi dai loro capi, prevalentemente uomini, e nella maggior parte dei casi basata su un autoritarismo che si esprime attraverso l’esercizio della forza, la diffusione di una cultura della competizione, e l’idea di un lavoro pervasivo e unicamente legato alla performance.
Temono quindi che, per gestire efficacemente le persone ed ottenere risultati in termini di business, dovranno soffocare i loro valori, scendere a compromessi con la loro etica, e mettere in atto, a loro volta, quei comportamenti che sentono diametralmente opposti rispetto al proprio modo di essere.
Ma è davvero questa l’unica via possibile per una donna che desideri diventare capo?
Che tipo di leadership esercitano le (ancora) poche donne che accettano di assumere ruoli di potere nelle organizzazioni?
Sono alcune delle domande che mi ha posto Gioia Audry Camillo in una recente puntata del podcast di Consulente.pro per il quale ho tenuto una rubrica in 9 puntate dedicata all’empowerment femminile (se ti interessa ascoltare gli episodi la trovi QUI).
Gioia mi ha interpellata sul tema riferendosi in particolare agli studi professionali: realtà aziendali di piccola o media dimensione che sono storicamente caratterizzati dalla presenza di un titolare/dominus uomo che si appoggia su uno staff a prevalenza femminile.
Il quesito è “cosa cambia in queste realtà se il capo è una donna? “
Per rispondere con una provocazione potrei dire NIENTE!…O forse TUTTO!
Già, perchè non sposo affatto l’idea che sia sufficiente avere una donna in posizione di comando per garantire al contesto trasparenza, rispetto, ascolto dei bisogni e insomma l’esercizio della cosiddetta “leadership gentile”.
Mettiamoci anche un po’ di rosa et voilà: lo stereotipo è servito!
Senza contare che non è detto che sia sempre opportuno o funzionale adottare un unico stile di leadership e che questo possa andare bene con tutte le persone e in ogni contesto.
In molte professioni organizzate (area legale, consulenza del lavoro, gestione fiscale e contabile, ingegneria, progettazioni e costruzioni, ambito IT e in genere in molte discipline STEM) il problema non è solo legato ai numeri esigui di donne iscritte agli albi oppure in posizioni apicali, ma anche al fatto che, per quanto possa sembrare inverosimile, spesso le poche donne che ottengono posizioni di responsabilità esercitano un modello organizzativo e di potere basato su principi sessisti.
Inoltre, se in molti studi professionali non è raro trovare professioniste preparate e capaci, è vero che la maternità determina per queste, molto più che per i colleghi maschi, uno spartiacque importante nell’evoluzione professionale e spesso pregiudica la possibilità di ricoprire ruoli di leadership.
Ancora più difficile è la situazione per le professioniste STEM che si trovano a confronto con i colleghi uomini nei cantieri, nelle aziende agricole o produttive. Lo scotto che pagano è ancora più elevato in quanto devono fronteggiare pregiudizi culturali e stereotipi sociali che caratterizzano alcuni tipi di professione molto più di altri.
Ancora oggi diverse mansioni non sono ritenute “lavori da donna” o “per una donna” o “ambiti femminili” in cui la professionista possa essere riconosciuta come tale, quindi competente e capace!
Acquisire prima e poi mantenere una posizione di leadership rappresenta quindi per molte donne intraprendenti una sfida importante, che si dibatte tra il tentativo di mantenere nel tempo un sano work-life balance e il desiderio di assecondare le proprie ambizioni di crescita professionale.
Il rapporto di Six Second del 2022 sull’intelligenza emotiva ha rilevato che, statisticamente, quando le donne ottengono un avanzamento di carriera aumentano la loro capacità di “navigare” le proprie emozioni questo però corrisponde d’altro canto ad una diminuzione dell’empatia nei confronti degli altri. Questo dato conferma, attraverso una diversa modalità, quell’assunzione di modelli comportamentali definibili “maschili” che si rileva nella pratica e di cui ho qui sopra raccontato.
Ma perchè le donne portano avanti questo modello di leadership?
Come dicevo in apertura, il motivo principale è sicuramente legato al fatto che, storicamente hanno avuto solo questo esempio di leadership da parte di uomini, imprenditori, professionisti e ne hanno assorbito, quasi naturalmente, le modalità operative.
L’idea che la leadership efficace fosse soltanto quella dell’autorità e della “linea dura” si è poi rinforzata con l’esperienza di coloro che, adottando comportamenti maschili, hanno effettivamente ottenuto ruoli di responsabilità.
Senza volerlo né esserne consapevoli fino in fondo si sono abituate pensare che per arrivare lì fosse necessario comportarsi in quel modo.
Questa situazione è riscontrabile in diverse realtà organizzative, come abbiamo potuto tristemente constatare dalla dichiarazione rilasciata nel 2022 dalla designer di moda e imprenditrice Elisabetta Franchi.
Franchi ha infatti dichiarato, senza nemmeno accorgersi delle implicazioni delle sue parole, durante una conferenza alla quale era stata invitata come esempio di empowerment femminile, che uno dei requisiti affinché una donna potesse entrare a far parte del suo team fosse essere “già sistemata”, ovvero avere figli già autonomi, in modo da potersi dedicare all’azienda 24 ore su 24.
Insomma, immagino che ora sia chiaro il concetto che mi sta a cuore passare: ovvero che non basta essere una donna in posizione di comando per garantire investimenti sui temi della conciliazione vita-lavoro, attenzione rispetto ai diritti ed alle pari opportunità e, in generale, per essere rappresentativa delle istanze delle donne.
Le donne che invece non si rispecchiano in queste modalità di comportamento spesso tendono a respingere sul nascere l’opportunità di avanzamento di carriera che si prospetta loro: per non perpetuare un modello di potere nel quale non si riconoscono, finiscono con il privare se stesse di nuove opportunità di crescita professionale e le loro organizzazioni della possibilità di immaginare uno sviluppo diverso, basato su una gestione più inclusiva ed equilibrata e realmente rispettosa della parità di genere e del benessere delle persone.
Superare il modello del “capo donna cattivo”: come inventare il proprio modo unico e sostenibile per essere una leader efficace ed etica
Ma quindi quella della “capa cattiva” è davvero l’unica immagine che abbiamo oggi della leadership femminile o esistono delle alternative che possiamo essere felici di immaginare, e quindi motivate ad assumere come role model di ispirazione?
Sul social professionale per eccellenza, Linkedin, che io amo molto, i post sull’avanzata delle donne nelle posizioni apicali si sprecano!
Se da un lato è incoraggiante vedere quanta attenzione in questi ultimi anni l’opinione pubblica e la lente di ingrandimento mediatica stiano mettendo sulle pari opportunità in termini di sviluppo professionale, sono convinta che una grandissima parte del lavoro da fare sia sui noi donne in primis.
Non è raro per me lavorare con professioniste che, arrivate al momento di sfoderare le proprie abilità come leader, cominciano a nascondersi dietro alibi come “io non sono capace di fare quella che spreme le persone!” e via così!
Queste affermazioni, come molte altre, partono da associazioni mentali del tutto fuorvianti in questo caso, ad esempio, l’equivalenza erronea è capo/leader= persona che esercita il potere con la forza, anche a danno degli altri.
Abbiamo già spiegato i motivi per cui questo accade, ma è importante ricordare che non esiste un’unica modalità per essere leader, e sebbene in letteratura si parli di stili di leadership o di management, ritengo che – al di là delle etichette – ciascuna persona che voglia diventare leader abbia il diritto di dare a questo concetto la sua interpretazione soggettiva.
Per questo, aiutare le donne a diventare leader di sé stesse anzitutto, per poi essere delle guide ispiranti ed efficaci per i propri team e per molte altre donne, è una delle attività professionali che amo di più.
Lo faccio attraverso modalità differenti, che spaziano dalla formazione al training, dai percorsi di coaching individuale e/o di gruppo, a quelli di mentoring 1:1. L’esercizio della leadership femminile in azienda è infatti uno dei temi che imprenditori e imprenditrici mi chiedono di affrontare durante i percorsi di sviluppo organizzativo che svolgo per loro.
Il tessuto produttivo italiano è costellato da molte PMI, che sono la prevalenza delle imprese del nostro territorio. In questi contesti spesso si presentano situazioni in cui la titolarità dell’organizzazione è in capo a più soci, spesso fratelli, sorelle o cugine che hanno ereditato l’attività dai propri nonni, zii o genitori. È in questo contesto che gli stereotipi di genere sulla leadership femminile in azienda si manifestano nella loro massima espressione e sono più difficili da eliminare.
Le donne in queste organizzazioni sono nella maggior parte dei casi incaricate della gestione segretariale o amministrativo-contabile, in altri, ancor più rari casi, sono impegnate nella gestione commerciale o nel rapporto con clienti e fornitori. Molto più difficilmente assumono reali posizioni di leadership ed anche quando sono co-titolari, spesso hanno poca voce in capitolo quando si tratta di compiere scelte strategiche per l’impresa. Ecco quindi che un intervento di empowerment, affinchè possa essere realmente efficace per restituire a queste donne il loro posto, deve passare anzitutto da un’evoluzione personale e professionale individuale.
La stessa manager, socia o imprenditrice infatti, spesso si trova inconsapevolmente a replicare comportamenti poco funzionali, che traducono in pratica convenzioni culturali e che le impediscono di ottenere quell’autorevolezza che desidera agli occhi dei propri pari e spesso anche dei collaboratori o dipendenti.
Soltanto dopo aver lavorato a questo livello con la donna interessata ad emergere come leader, è possibile intervenire sull’organizzazione, per favorire la diffusione di una cultura aziendale inclusiva e rispettosa delle pari opportunità.
Fortunatamente ci sono però sempre più donne pronte ad assumersi la responsabilità di guidare le imprese… Donne che, nonostante non abbiano avuto modelli diversi a cui ispirarsi, stanno lavorando affinché le cose cambino.
Imprenditrici che vogliono trovare un nuovo modo per essere capo-donna, per smettere di portare avanti un modello che hanno involontariamente subito e crearne uno più autorevole e ispirante, basato sulla comunicazione e la trasparenza nei confronti dei collaboratori.
A dimostrazione del fatto che una donna può funzionare nel coordinare un gruppo di uomini in produzione sono felice di condividere la mia esperienza in OFFICINE PIKI s.r.l. in cui Greta Simone, grazie ad un percorso individuale di empowerment, si è sentita capace di raccogliere la sfida di diventare responsabile dell’organizzazione della produzione.
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Se il titolare si fosse fermato di fronte al pregiudizio di genere, avrebbe disperso un immenso potenziale per la sua azienda, perdendo la possibilità di delegare parte del suo lavoro operativo e di far crescere la sua collaboratrice.
Questo è un successo collettivo, oltre che personale, perché ogni volta che una donna meritevole infrange uno stereotipo o un tetto di cristallo è un piccolo passo verso una rivoluzione culturale dell’intero tessuto economico e sociale.
Diventare una leader all’avanguardia è un viaggio: la storia di Fabiola Butti, co-titolare del Salumificio di famiglia e del suo progetto di innovazione organizzativa
La stessa spinta verso il cambiamento ed un nuovo modo di essere leader è quella che ha guidato Fabiola Butti, co-titolare dell’omonimo salumificio di famiglia, nel decidere di scegliermi a fine 2021 come personal coach per sviluppare un nuovo mindset imprenditoriale. Si era infatti resa conto che per lasciare la sua impronta unica alle generazioni successive avrebbe dovuto iniziare con un lavoro su se stessa, come donna e imprenditrice, per poi riuscire ad implementare un progetto di ri-organizzazione aziendale di ampio respiro.
In uno degli articoli precedenti dedicato al Benessere in Azienda avevo già avuto modo di parlare dell’azienda di Fabiola, che era stata coinvolta nelle prime fasi del progetto “ConciliAzione: la conciliazione in condivisione”, un’iniziativa finanziata da Regione Lombardia a supporto degli interventi di conciliazione famiglia-lavoro ai sensi della D.G.R 2398/19 ed inserito nel Piano Territoriale di Conciliazione Vita Lavoro di ATS Brianza, in collaborazione con Confartigianato Imprese Lecco.
Con Salumificio Butti snc il progetto è poi proseguito con una FASE 3 che ha previsto la stesura di un piano di innovazione organizzativa triennale (2022/25), che ho avuto modo di presentare all’azienda in presenza di Larissa Pirola (Responsabile formazione e Referente Conciliazione per Confartigianato imprese Lecco) durante la call prevista come momento di condivisione finale delle attività svolte.
Insieme a me, Larissa e Fabiola, in call era presente Valentina Rocca, braccio destro di Fabiola e referente operativa del progetto di innovazione in Salumificio Butti snc.
L’esperienza stessa di Valentina è un altro esempio di come sia possibile valorizzare la leadership femminile in azienda: da semplice impiegata, grazie al lavoro di empowerment degli ultimi mesi è ora incaricata di coordinare le squadre di produzione interfacciandosi con i due soci e con i vari responsabili di reparto (tutti uomini).
Di seguito riporto una sintesi dei momenti salienti della call, a dimostrazione del fatto che un nuovo modello di leadership è possibile in quanto si appoggia su competenze quali
- l’ascolto dei bisogni delle persone
- la capacità di dare e ricevere feedback costruttivi
- una buona organizzazione dei ruoli, dei processi e delle procedure
- la capacità di ispirare e motivare rendendo i collaboratori partecipi di una visione.
La cosa bella è che sono abilità che si possono imparare, al di là di ogni stereotipo di genere e che ogni donna può contribuire a questa svolta epocale.
LARISSA: In Confartigianato Imprese Lecco da anni promuoviamo buone pratiche di conciliazione vita-lavoro con progetti che non sarebbero però realizzabili se non ci fossero aziende ricettive e attente a queste tematiche come Salumificio Butti snc.
Cristina Pedretti, consulente e formatrice, ha seguito in prima persona questo percorso rilevando i bisogni dell’azienda e aiutando la titolare a definire una strategia di organizzazione, gestione dei processi produttivi e delle risorse umane dedicate, al fine di migliorare alcuni indicatori relativi al benessere organizzativo e al clima di lavoro.
CRISTINA: Fabiola è stata una delle prime persone che ha accolto le iniziative di Confartigianato Imprese Lecco dedicate alle Imprenditrici, partecipando a webinar e corsi di formazione a testimonianza della sua sensibilità verso l’innovazione imprenditoriale e il Benessere aziendale.
Grazie ai risultati emersi dai questionari sottoposti a titolari e dipendenti sono emersi alcuni punti critici su cui lavorare per sviluppare un progetto di sviluppo organizzativo.
Perché, dall’esperienza che ho anche con altre realtà del territorio, per portare benessere in azienda non basta organizzare interventi formativi spot tanto per firmare dei registri, ma occorre soprattutto lavorare sulla strategia e l’organizzazione aziendale.
Insieme a Fabiola e Valentina abbiamo infatti definito le azioni concrete da mettere in atto, una sorta di road map per lo sviluppo della loro azienda.
FABIOLA: Come ha detto correttamente Cristina, quando ho iniziato a seguire i suoi corsi mi rendevo conto di quanto fossero utili ma poi facevo fatica, da sola, a mettere in pratica i consigli. Grazie al suo suggerimento di farmi supportare da Valentina, da quando ho iniziato a coinvolgerla nei progetti strategici, ho trovato il modo per essere stimolata, perché lei mi spingeva ad agire: è stata proprio un braccio destro di grande valore anche di confronto e conforto nei momenti di difficoltà.
La mia azienda ha avuto il cosiddetto passaggio generazionale da genitori a figli che è stato un momento decisamente faticoso: io e i miei fratelli eravamo abituati a lavorare nella dinamica in cui era il padre a prendere le decisioni senza confrontarsi con nessuno.
Il mio modello di leadership è invece basato sul coinvolgimento, anche grazie al confronto con Valentina che spesso mi espone il punto di vista da dipendente ma non è stato facile abituare i miei fratelli ad accogliere questa modalità di gestione dell’azienda.
CRISTINA: Non è stato sicuramente facile, anche solo per il fatto di essere una donna tra due uomini, ma pensa quanto rivoluzionaria sia stata la tua nuova visione per l’azienda!
Oggi siamo qui solo tra professioniste donne a parlare di risultati, ed è un bell’obiettivo raggiunto ma c’è ancora tanto da lavorare per fare in modo che le donne ottengano più spazio perché, come anche questa esperienza ci sta raccontando, spesso sono davvero loro le portatrici d’innovazione.
Imprenditrici come Fabiola che hanno vissuto in prima persona i bisogni di conciliazione e sentono la necessità di lavorare sul benessere aziendale non migliorano solo la loro azienda ma hanno un impatto sull’intera società, una ricaduta positiva sul territorio, come indotto, come occupazione e benessere delle persone.
FABIOLA: Gli uomini spesso vedono i problemi come degli ostacoli invalicabili, anche io prima avevo questo atteggiamento dato dal modello di leadership che avevo assimilato, ma grazie a Cristina ho imparato a cogliere questi problemi come opportunità, a guardarli anche da un altro punto di vista.
CRISTINA: Donne protagoniste insomma: anche il ruolo di Valentina è stato decisivo per la buona riuscita di questo progetto.
VALENTINA: Sono partita da zero in questa sfida, con la fiducia di Fabiola e il grande supporto di Cristina che mi ha dato gli strumenti per migliorare prima di tutto la comunicazione e la collaborazione tra colleghi che ha di conseguenza portato a creare un clima migliore.
A piccoli passi, con un lavoro che ha coinvolto ogni singolo dipendente presente in azienda stiamo iniziando a ottenere ora i primi risultati e le prime soddisfazioni.
LARISSA: Mi piace molto questo messaggio che stai portando: “a piccoli passi”, un po’ alla volta, perché non bisogna pensare di fare delle rivoluzioni esplosive e istantanee che, al contrario, potrebbero rivelarsi profondamente destabilizzanti e inutili sull’impatto di lungo periodo.
Per questo mi piace sottolineare quanto questo momento di chiusura formale del progetto non sia assolutamente una fine ma, in realtà, un punto di partenza: la prospettiva che abbiamo davanti è infatti triennale per proseguire nel grande percorso di cambiamento avviato.
CRISTINA: …perché bandi europei come quello utilizzato a supporto di questo progetto prevedono che successivamente alle fasi finanziate questo abbia continuità e sia sostenibile anche successivamente alla chiusura formale.
LARISSA: Esattamente: a distanza di 3 anni dovremo effettuare infatti una relazione dettagliata degli impatti, mettendo il luce eventuali ricadute future: siamo certe che l’esperienza di leadership innovativa di Fabiola possa diventare una best practice replicabile in molte altre PMI iscritte alla nostra associazione di categoria!
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