Come avviare progetti per la parità di genere in azienda e certificarsi sulla UNI Pdr/125

Non ha senso oggi parlare di parità di genere in azienda senza menzionare i progressi normativi fatti negli ultimi mesi: il 1 luglio 2022 è stato infatti pubblicato in gazzetta ufficiale il Decreto del 29 aprile 2022 che recepisce la norma tecnica UNI/Pdr 125 del marzo 2022 e segue la Legge del 5 novembre 2021, n. 162 che istituisce la Certificazione della Parità di Genere nelle imprese. 

Dal momento che la normativa prevede incentivi per le aziende in termini di sgravi contributivi e di premialità per l’accesso a bandi e finanziamenti, molte aziende italiane si stanno attivando in una vera e propria “corsa alla certificazione”.

Ma qual è il senso di questa iniziativa legislativa e come avviare progetti per la parità di genere che siano realmente significativi e di impatto positivo per le organizzazioni e le persone che in esse lavorano? 

L’articolo di oggi ha lo scopo di smarcare questi punti presentando anche alcuni esempi concreti di intervento in azienda per la creazione di una cultura egualitaria. Questo infatti  è il sostrato di una qualsiasi iniziativa volta a risolvere il gender gap ancora imperante.


SOMMARIO


Parità di genere al lavoro: cosa significa e come passare dal pinkwashing alla pratica

Il tema della Responsabilità di genere ricorre ormai da qualche tempo nel più ampio ambito della Responsabilità Sociale d’Impresa e si pone come nodo centrale soprattutto per le grandi aziende per cui questi temi sono molto rilevanti a livello di brand e di attrazione dei talenti.

Tuttavia, a partire dal 2022, la questione è diventata interessante anche per molte PMI e per gli studi professionali, in quanto le recenti normative hanno stabilito una serie di vantaggi con ricadute economiche importanti per le organizzazioni che decidono di intraprendere il percorso (al momento volontario) per la Certificazione della parità di genere.

Anzitutto è bene sottolineare che per “parità di genere” non si intende soltanto avere un’attenzione verso le donne e alle discriminazioni che le riguardano ma si tratta di adottare una visione più ampia, che permetta di valutare anche i casi in cui certe situazioni si rivelano penalizzanti per qualsiasi essere umano, a prescindere dal genere di appartenenza.

Potrebbe sembrare una precisazione banale ma, la necessità di farla, ci aiuta a comprendere che quando parliamo di parità di genere dobbiamo anzitutto comprendere che le disparità oggi presenti nel mondo del lavoro (e non solo) traggono origine da pregiudizi cognitivi “naturali” rinforzati da aspetti culturali e sociali ben radicati in ognuno di noi. 

Si tratta dei BIAS, ovvero automatismi mentali che, in questo specifico caso, ad esempio, ci portano a credere che ad essere discriminate per il genere di appartenenza siano sempre le donne, mentre non è detto che sia così ovunque: per disambiguare il tema chiave di questo articolo ovvero la “parità di genere” non possiamo negare il fatto che ci siano diversi settori e realtà produttive in cui sono gli uomini ad essere in netta minoranza numerica.

Il nostro cervello lavora proprio così, per scorciatoie cognitive che lo aiutano a semplificare la realtà e a trarre conclusioni sulla base delle nostre esperienze precedenti.

Quando però questi meccanismi automatici generano stereotipi è difficile rendersi conto oggettivamente dei rischi che questi possano creare, perché non siamo in grado di riconoscerli e metterli in discussione, prendendoli come dei “dati di fatto”.

Molto spesso, e soprattutto quando sono riferiti al genere maschile e femminile, rappresentano una barriera e una limitazione all’espressione personale: è qui che il pregiudizio si insinua e influenza le nostre azioni e quelle degli altri.

Parlare di equità di genere nelle organizzazioni non significa quindi soltanto analizzare i dati e le percentuali dal punto di vista di assunzioni, dimissioni, quote rosa ma considerare diversi livelli d’indagine tra cui gli aspetti percettivi individuali e la cultura aziendale.

Non a caso, la recente prassi di riferimento UNI/Pdr 125, emessa dall’Ente italiano di Normazione UNI, ha stabilito 6 indicatori per la valutazione dei requisiti nelle imprese, tra cui ne figurano diversi da rilevare in senso qualitativo più che quantitativo:

  1. Cultura e strategia 
  2. Governance 
  3. Processi HR 
  4. Opportunità di crescita in azienda neutrali per genere
  5. Equità remunerativa per genere 
  6. Tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro 

Uno dei punti più volte ribadito all’interno della norma è che le politiche di parità di genere aziendali debbano essere comunicate e diffuse, ad esempio rendendole disponibili sul sito internet dell’organizzazione: solo attraverso la comunicazione e l’esempio è infatti possibile favorire la diffusione dei principi di egualitarismo e pari opportunità a tutti i livelli ed innescare il processo di evoluzione culturale da cui poi si generano le ricadute pratiche sulle policy e da lì a cascata sui processi operativi e sui modus operandi quotidiani. 

Attenzione però a non incappare nell’ipocrisia dell’effetto pinkwashing che – analogamente al greenwashing – consiste nel mostrare un atteggiamento solidale verso i temi dell’empowerment femminile e delle pari opportunità tra uomini e donne sul posto di lavoro e con obiettivi puramente utilitaristici: alcuni brand hanno dimostrato infatti di cavalcare le tematiche più in voga solo per moda, promuovendo campagne pubblicitarie senza una reale condivisione e messa in pratica di tali valori.

parità di genere

Domande frequenti sulla Certificazione della parità di genere in azienda

Per fare in modo che in azienda l’equità di genere sia una realtà praticata e non una mera azione di marketing è necessario attenersi quindi alle linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere

L’obiettivo di carattere culturale della certificazione UNI/Pdr 125 è quello di avviare un percorso sistemico di cambiamento nelle organizzazioni, al fine di raggiungere un più equo trattamento delle persone dal punto di vista del genere, superando la visione stereotipata dei ruoli ed attivando i talenti femminili al fine di stimolare la crescita economica e sociale del Paese.

Ma in che modo la norma aiuta le imprese?

  1. accompagnandole nella “messa a terra” dei KPI per farli diventare i tasselli fondanti del proprio nuovo DNA organizzativo;
  2. supportando la certificazione di parte terza, che può quindi diventare uno strumento per aiutare le aziende a colmare i gap attualmente esistenti rispetto al paradigma di riferimento.

Trattandosi di una novità, ultimamente mi è capitato spesso di ricevere domande sulla certificazione da parte dei titolari di azienda, per questo ho pensato di rispondere qui a quelle più ricorrenti: 

È obbligatorio certificarsi?

La Certificazione è volontaria e da intendersi come impegno al miglioramento continuo nell’ottica della qualità totale.

In che modo è possibile lavorare sul punto 1 della norma, relativo all’area cultura e strategia?

Sicuramente la formazione è una delle attività fondanti di questa implementazione (la parola formazione ricorre addirittura 9 volte nel solo paragrafo relativo all’indicatore n°6 della norma UNI/Pdr 125).

Per lavorare sull’area cultura e strategia è possibile, ad esempio, prevedere interventi di team building o percorsi di coaching legati all’empowerment delle persone che all’interno dell’azienda si occupano di attuare queste nuove politiche di genere, e che possono diventare dei volani positivi per diffonderne la cultura più inclusiva e valorizzante. 

Ci sono degli argomenti specifici da affrontare durante gli interventi formativi?

No, la norma non esplicita argomenti obbligatori, ma specifica che chi si occuperà di implementare il sistema di gestione debba essere adeguatamente formato.

Partendo quindi dalla rilevazione di quale sia il fabbisogno di ciascuna azienda, attraverso un lavoro mirato di mappatura delle competenze pregresse delle persone coinvolte, è possibile capire come intervenire e in quali aree, per fare in modo che queste figure diventino riferimenti interni all’azienda in grado di portare avanti i valori aziendali legati alla parità di genere.

Come è possibile approcciarsi alla norma in aziende dove, per tipologia di settore, non è facilmente applicabile, come ad esempio le imprese edili a prevalenza maschile?

Innanzitutto gli indicatori sono calibrati in funzione della grandezza dell’organizzazione e dei settori, in base ai codici ATECO ed alle medie nazionali di riferimento. La certificazione della parità di genere sarà inoltre agevolata fino a dicembre 2026 per le PMI (da 10 a 49 addetti) e le micro-imprese (da 1 a 9 addetti).

Ma siamo sicuri che l’ostacolo relativo al genere del personale dipendente sia oggettivo e non soggettivo? Che questa domanda non sia frutto di quei famosi stereotipi di cui parlavamo in apertura? 

Partiamo prima di tutto dal darci la possibilità di aprirci a idee anticonvenzionali: non sempre sarà possibile fare grandi passi in avanti su determinati indicatori, come quelli legati al numero di nuove risorse inserite (per tornare al nostro esempio, quante potranno mai essere infatti in tutta Italia le operatrici edili di genere femminile?) ma si può sempre fare la differenza su altri indicatori come quello legato alla comunicazione dell’equità di genere: diventare, ad esempio, un’azienda promotrice sul territorio di iniziative che vanno ad impattare sulla consapevolezza, sull’equilibrio vita-lavoro, in un’ ottica di sviluppo sostenibile, ecc…

Ci sono dei vantaggi economici per le aziende che si certificano?

Ottenere la certificazione per un’azienda significa beneficiare di:

  1. esonero dal versamento dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro (cmq non superiore all’1% e nel limite massimo di € 50.000,00 / anno per ciascuna azienda);
  2. stanziamento previsto nel PNRR destinato allo sviluppo di una certificazione della parità di genere;
  3. punteggio premiale riconosciuto dalle PA per bandi di gara pubblici e dalle autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali relativamente alle proposte progettuali presentate ai fini della concessione di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti;
  4. incentivi di natura fiscale e in materia di appalti pubblici.

Case history: avviare progetti per la parità di genere in azienda

Uno dei percorsi di formazione sulle questioni di genere che ho erogato di recente è stato quello per il gruppo DBhub/SDBA, uno studio associato di commercialist* e avvocat*. 

L’ambito degli studi professionali si caratterizza spesso per la prevalenza di personale femminile in ruoli di staff, segretariali e mansioni contabili o amministrative, mentre le titolarità o i livelli manageriali intermedi sono spesso in capo a uomini.

Il progetto formativo Le 3 C della Responsabilità di Genere: Comprensione, Conciliazione e Comunicazione aveva l’obiettivo di approfondire il tema attraverso due aspetti principali: da un lato quello della ricorrenza degli stereotipi di genere in ambito professionale, con le relative difficoltà di comprensione “tra generi” e “ruoli” e bisogni conciliativi e realizzativi, dall’altro l’aspetto di relazione intra-genere e delle sue implicazioni comunicative e relazionali.

Per questo sono stati progettati due moduli per un totale di 15 ore d’aula: 7 di teoria per il trasferimento dei concetti-chiave e 7 di pratica collaborativa e/o confronto mediato tra i/le partecipanti.

certificazione parità di genere

Per attuare un cambiamento sociale è importante che siano le piccole realtà a portare in azienda questi temi e in questo senso ”Le 3 C” possono rappresentare proprio i primi tre passi che ogni organizzazione può affrontare per innescare la rivoluzione culturale necessaria per colmare i gap di genere:

  1. COMPRENSIONE: l’esperienza formativa proposta è iniziata dalle nozioni di base relative al Gender Gap e al sessismo nei luoghi di lavoro e dall’analisi dei dati attuali, per svelare quanto stereotipi e pregiudizi siano pervasivi ma molto spesso invisibili nella nostra routine personale e professionale. 

Attraverso attività pratiche il team di lavoro ha evidenziato quelli più frequenti per poi avviare una riflessione sulla necessità di comprendere i bisogni dell’altr*: vedere che ciò che per noi è una consuetudine può rappresentare un problema per altri, è il primo step per riconoscerlo come tale e darsi quindi la possibilità di fermarsi a riflettere per far sentire l’altr* ascoltat*.

Un esempio molto pratico e “in voga” è la diatriba su come appellare le donne che svolgono mansioni che fino a pochi anni fa erano solo maschili: avvocate, ingegnere, notaie? 

La grammatica italiana dice che questi siano i termini corretti ma perché, semplicemente, non chiediamo a ciascuna: “Come preferisci essere chiamata?”. 

  1. CONCILIAZIONE: una volta identificati gli stereotipi ho portato il gruppo a riflettere  su quanto la conciliazione possa e debba ancora continuare ad essere considerata un tema “di genere”: attraverso politiche di flessibilità e di work-life balance (come lo smartworking) equamente distribuite tra i dipendenti a prescindere dal loro genere di appartenenza è possibile infatti garantire inclusione e pari opportunità.

Anche in questo caso, attraverso un lavoro di gruppo a partire dalle macro aree della norma UNI/Pdr 125:2022 ho sollecitato i partecipanti a identificare alcuni indicatori pratici per poi avviare un dibattito di confronto.

  1. COMUNICAZIONE: 

“Se vogliamo andare verso una società inclusiva bisogna avere un occhio di riguardo verso il linguaggio. Per la convivenza delle differenze, il rispetto delle differenze”. Vera Gheno – sociolinguista

Attraverso il modo in cui parliamo possiamo avviare il cambiamento necessario a colmare il gender gap: una comunicazione ampia e inclusiva è più efficace e contribuisce ad eliminare le differenze di genere e di ruolo. Per questo ho concluso l’intervento con un’attività di public speaking in piccoli gruppi, che aveva lo scopo di realizzare un testo di ispirazione sui temi trattati.

Al termine del percorso formativo le/i partecipanti hanno avuto quindi una panoramica delle principali tendenze rispetto ai temi dell’inclusione di genere e delle pari opportunità nel mondo del lavoro e degli studi professionali in particolare. Hanno inoltre avuto modo di condividere bisogni personali e professionali e possibili soluzioni comuni nell’ottica della sostenibilità dello Studio. 

Cosa fare in concreto per portare la parità di genere nella propria azienda 

Come abbiamo visto fin qui, ogni singola azienda a prescindere dalle sue dimensioni, dalla prevalenza di uomini o di donne e dalla volontà di certificarsi o meno può mettere in atto fin da subito dei semplici accorgimenti per favorire la parità di genere partendo dalla formazione e dalla comunicazione.

Anche la norma UNI/Pdr 125 vede infatti nella formazione una delle attività fondanti e indispensabili per la messa in pratica dei principi chiave; per questo le aziende che intendono implementare il proprio sistema di gestione, oppure anche solo approcciarsi in maniera strutturata a tematiche di questo tipo, possono avviare il loro processo di cambiamento iniziando da interventi di team building e percorsi di coaching progettati ad hoc

Si tratta di interventi più o meno incisivi e consistenti che metteranno l’azienda nella condizione di iniziare un percorso che, con il tempo, porterà a colmare realmente le disparità tra i generi e che fin da subito, permetterà di contenere o frenare alcune delle tendenze ancora oggi troppo diffuse come: 

  • il basso tasso di occupazione femminile;
  • gap retributivi tra uomini e donne;
  • il “soffitto di cristallo”, cioè la scarsa presenza delle donne nei ruoli apicali.

Nell’indagine che ho svolto recentemente in alcune PMI lecchesi sul benessere aziendale è emerso quanto gli stereotipi sociali relativi alle donne e al loro ruolo nella famiglia e nell’impresa pesi sullo sviluppo delle aziende e sulla possibilità di  garantire pari opportunità personali e professionali tra i generi.

Ancora una volta sono quindi BIAS e pregiudizi a minare il principio dell’uguaglianza di genere secondo il quale tutti gli esseri umani sono liberi di sviluppare le loro abilità personali.

Per maggior correttezza è importante dire che esiste un concetto ancora più specifico e corretto rispetto a quello di ”uguaglianza di genere”, anche se spesso le due locuzioni vengono usate come sinonimi: l’equità di genere si riferisce infatti ad un equo comportamento in base alle rispettive esigenze di ogni persona includendo anche le diverse condizioni sociali, i diritti, i benefici, l’accessibilità alle opportunità di ognuno.
L’idea NON è quindi che siamo UGUALI, ma che ogni essere umano è unico e diverso dagli altri e che per questo ha diritto ad un trattamento EQUO che tenga conto proprio delle sue specificità, invece di ignorarle o escluderle.

In che modo, quindi è concretamente possibile promuovere l’equità di genere in azienda? 

A titolo esemplificativo e non esaustivo, imprenditori e imprenditrici potrebbero:

  • includere più donne in ruoli di leadership per compensare le disparità;
  • contemplare nel DVR rischi specifici inerenti il sesso biologico;
  • prestare attenzione alla parità retributiva dei dipendenti in base a ruolo e anzianità di servizio e non in base al genere di appartenenza;
  • promuovere l’assunzione di uomini in ruoli “storicamente” femminili e viceversa.

Non si tratta di accorgimenti adottabili solo da parte di multinazionali o aziende strutturate ma alla portata di chiunque voglia contribuire a questo cambiamento sociale.

Sono sempre orgogliosa di raccontare un caso di successo in questo senso, un esempio virtuoso di una piccola realtà locale che ha abbattuto il primo tassello del soffitto di cristallo proponendo alla propria impiegata, donna, di assumere un ruolo di responsabilità in una realtà da sempre maschile.

Si tratta di un’azienda familiare a conduzione maschile del settore artigiano, Officine PIKI s.r.l in cui Greta Simone, supportata da un percorso di coaching individuale, è diventata responsabile di produzione coordinando un gruppo di circa 20 persone.

Senza un mindset aperto e scevro dai pregiudizi e dagli “abbiamo sempre fatto così” non sarebbe stato possibile per una donna ricoprire  un ruolo “tipicamente” maschile: nel video seguente i Greta racconta i passi che l’hanno portata ad accettare questa sfida.

Per un approfondimento sull’evoluzione legislativa che ha condotto alla certificazione UNI Pdr/125 e sulle politiche di parità di genere con un approccio più tecnico orientato all’implementazione del sistema di gestione rimando al webinar svolto in collaborazione con Studio Ares.

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